Vertigine

di roaR

“Eccone un’altra” mi dici, indicando un groviglio di filo spinato nascosto in un cespuglio di rovi. Frughi nello zaino e tiri fuori una maglietta appallottolata. Usandola a mo’ di guanto, afferri un capo della matassa e inizi a tirare. I muscoli delle spalle si muovono sotto la pelle, sollecitati dalla fatica. Noto che sotto la spallina della canottiera la pelle è più chiara rispetto alla spalla, che brilla bruna e sudata sotto il sole di giugno. Le vene delle braccia si gonfiano per lo sforzo, mentre tu tiri, tiri e tiri ancora, finché il groviglio arrugginito inizia ad assecondare il tuo movimento, staccandosi dai rovi, come un enorme pesce, portando con se’ terriccio, spine, foglie e detriti.

“Questi cazzo di bracconieri” dici quando il filo spinato è finalmente sradicato e mi sorridi, con la fronte ricoperta di sudore. Io ti sorrido a mia volta, il sorriso più grande che ho, che arriva da qualche parte vicino allo stomaco, forse ancora da più giù. Per un attimo il tuo sguardo si sofferma sulle mie tette, che la maglietta sportiva riesce a stento a contenere. Io me ne accorgo, mi passo una mano sul petto, come per lisciare la stoffa della maglia. Tu, imbarazzato, distogli lo sguardo.

“Era un sacco di tempo che non vedevo trappole su questo sentiero” sussurri, con gli occhi piantati a terra. Io sorrido di nuovo, vengo verso di te e ti dò un bacio sulla guancia, premendo con delicatezza il petto contro il tuo fianco. Ti sento trattenere il respiro e, nello stesso momento, percepisco la lieve pressione dei miei capezzoli contro il reggiseno. E’ piacevole. “Rimettiamoci in cammino che il rifugio chiude alle quattro” mi dici, con gli occhi neri che scintillano sul viso accaldato. Attraversiamo un boschetto di querce e carpini, poi la radura si apre nuovamente, mostrando un cielo limpido e un’ampia vallata. Sento un rombo in lontananza, come di un aereo che sta per decollare. Ti fermi di colpo e ti sporgi verso il precipizio, appoggiandoti a un grosso masso ricoperto di muschio. “Sempre le ruspe” mormori con un filo di voce, “vieni a vedere”. Io ti raggiungo, facendo attenzione a dove metto i piedi. Sbircio giù da dietro la tua schiena, provando un leggero senso di nausea. “Tranquilla”, mi dici, “ti tengo io”. Tenendomi per mano mi fai scivolare al tuo fianco e poi davanti a te. Mi cingi la vita con le mani e premi il bacino contro il mio. Inspiro ed espiro fortissimo, poi guardo giù, verso la valle. Vedo un puntino giallo in fondo, la ruspa. Il tuo respiro mi sfiora l’orecchio, è caldo e confortante. Spingo il bacino un poco di più contro il tuo, facendolo oscillare impercettibilmente, e sento il tuo cazzo attraverso la stoffa impermeabile dei pantaloni. Il tuo respiro vibra più forte contro i miei lobi. Fai per staccare le mani dai miei fianchi, ma io le prendo tra le mie e le premo ancora più forte contro di me. Rimaniamo così per qualche secondo, bacini e mani intrecciate, respiro forte e bollente, rombo tremendo e regolare. Inizio a muovere molto lentamente la tua mano destra lungo il mio fianco. La mia maglietta si arrotola sotto la pressione, finché le tue dita sfiorano la mia pelle nuda. Continuo a muovere la tua mano lungo le mie costole, sempre più su, fino a toccare il cotone leggero del reggiseno. Il tuo respiro si ferma per un attimo, poi ti sento deglutire. Prendo la tua mano sinistra e la faccio scivolare sul mio addome coperto dai pantaloncini, poi piano piano la guido sotto la stoffa, fino al bordo delle mutande. Centinaia di metri più in basso, il puntino giallo si muove pesantemente tra gli alberi, come un grosso mammifero. Intanto la mia nausea si è trasformata in qualcos’altro. Sento un brivido che dall’osso sacro si espande lentamente lungo i lombi. Deglutisco anch’io. Mentre muovo la tua mano sinistra sulla pancia, la destra si infila sotto il ferretto del reggiseno, senza più bisogno della mia guida. Le dita afferrano il mio capezzolo già turgido e iniziano a massaggiarlo dolcemente. La mia fica si contrae, mentre un rivolo umido mi bagna le mutande. Stringo più forte la tua mano sinistra e la sposto con un gesto deciso sul pube. Tu sembri indugiare, poi gemi forte nel mio orecchio e stringi il mio capezzolo tra le dita della mano destra, mentre quelle della sinistra giocano un po’ con i miei peli, per poi infilarsi con dolcezza nella mia fica fradicia. Ti bagni bene il pollice e l’indice con il mio liquido e poi afferri la mia clitoride, gonfia e fremente. E’ come se tutto il sangue che ho in corpo confluisse in quei due punti, abbandonando a se stessi tutti gli altri organi. Le tue dita bagnatissime scivolano sulla clitoride, mentre un rivolo caldo e abbondante inonda tutta la mia vulva, innaffiandone le pareti, le labbra, gli orifizi. Sento le contrazioni farsi sempre più intense e frequenti, non riesco più a trattenermi. Afferro le tue dita e le premo fortissimo contro di me, in alto a stringere il seno, in basso contro la clitoride, che adesso pulsa e trema intensamente, mentre sento un brivido che mi attraversa la pancia e investe il mio diaframma, poi da lì arriva nella trachea, come fosse elettricità, e si trasforma in voce, una voce profonda, disperata, una voce sconosciuta. Il mio ululato rimbomba per tutta la valle, rimbalza tra le pareti devastate, da una lastra di marmo sgretolata all’altra, tocca l’acciaio della ruspa e si intreccia al suo verso, lo ricopre, per poi avvolgere tutti gli alberi, i falchi, il sole infuocato. Il mio corpo è elettrico, attraversato da spasmi. La fica è un animale, che sobbalza e si contrae, dieci, mille volte. E poi tutto si calma. L’ululato diventa respiro, il petto non trema più, la vulva è distesa, completamente aperta, le labbra rilassate. Guardo ancora giù, ma ora non sento la vertigine. Ho solo voglia di accasciarmi sull’erba, il corpo pesante, chiudere gli occhi e lasciarmi cullare dal rombo d’acciaio di questa natura.