di Francesca Colombo
Stare in ospedale è un po’ come stare in collegio oppure, immagino, in prigione: improvvisamente ti ritrovi a dividere ogni intimità con donne sconosciute. E dopo l’operazione devi sanguinare, vomitare e piangere davanti a tutte sopportando pure le altre che fanno lo stesso.
La signora Maria fin dall’inizio mi stette antipatica. Mentre ci sistemavano in due letti vicini mi toccò stare a sentire mio figlio, mio marito e i parenti di lei, tutti contenti perché ci avevano messe insieme. E quant’era bello secondo loro, che due vecchiette abruzzesi si ritrovassero in quel grande ospedale del Nord! Quanta compagnia ci saremmo fatte! Era come se fossimo due bambine, costrette a far finta di essere amiche per compiacere gli adulti.
In realtà io e lei non avevamo niente in comune. Io sono di Pescara, signora di città, lei una burina fatta e finita; una pastora proprio, delle montagne sopra l’Aquila. Non esagero, anche se mio figlio mi dice sempre esagerata; bisognava sentire che cose raccontava alle infermiere.
«Eh, fja mia, che gli fa un terremoto alla mia casa? L’ho costruita io… mio marito metteva le pietre, io mescolavo la calce, il figlio che allattavo me lo portavo sulle spalle …»
«Ma davvero, davvero, signora?»
L’ascoltavano come se raccontasse chissà che film. E ridevano di ogni scemenza che diceva, anche. Perché aveva un modo di mettere in ridicolo tutto: il dolore, il cibo unto e sciapo, i medici su cui faceva apprezzamenti proprio da donna volgare.
Quando passavano a me, invece, si componevano una faccia professionale. Capivo che s’aspettavano di annoiarsi perché avrebbero sentito solo lamentele. Io sono sempre stata una donna come si deve, perciò che ho da raccontare? E di cosa si dovrebbe parlare in ospedale, se non dei propri mali? Che poi mio figlio dice che non parlo d’altro.
Io, anche a ottant’anni, ho cura il mio aspetto. Così deve fare una donna e così faccio. Lei invece, quanto era brutta! Tanto per cominciare aveva la barba: una vera donna barbuta. Poi i capelli raccolti in tuppo o addirittura sciolti, scarmigliati, ancora neri da fare impressione. Piccolina, larga di fianchi ma magra, la pelle della pancia e dei seni che le pendeva addosso come se ancora fosse stata incinta (quando la spogliavano mi toccava vedere) e due gambette secche e storte. Con le quali già dopo pochi giorni dall’operazione correva per la stanza, mentre io, che avevo fatto lo stesso intervento, me ne stavo a letto a fissare il soffitto con tutto il corpo addolorato.
E mio figlio: «Dai, mamma, l’hai sentito, il dottore, prendi esempio dalla signora Maria!»
Mio marito non parla mai; ho quasi dimenticato la sua voce. Ma mio figlio ha sempre da comandare e da ridire, come se adesso il padre di famiglia fosse lui. É bravo, intendiamoci, si prende cura di noi, ma vorrei che ci portasse più rispetto.
In ospedale, le notti cominciano presto e non finiscono mai. Stavo a letto a piangere dal male, a desiderare di rigirarmi senza poterlo fare, a chiedere la padella alle infermiere sempre più sgraziate; e per cercare di addormentarmi dicevo il rosario.
«Signò» mi sussurrò la Maria dal letto vicino «ce l’ho io una cosa che vi fare fa stare bene bene, meglio del rosario»
«E che è?» risposi per non essere maleducata.
«Eh, vedete» continuò abbassando ancora la voce, per non farsi sentire dalle altre malate e dai parenti addormentati sulle poltrone «Si va di notte con l’amiche sul monte, s’accende un bel fuoco, si balla e si sta in buona compagnia…e non per dì, s’hanno amicizie importanti… altro che la vergine del rosario.»
Poi s’azzittì. Mi appoggiò qualcosa sul comodino.
«Mangiate, signò, è un dolce fatto col miele delle api mie.»
E siccome esitavo aggiunse pressante: «Signò, ve lo dò perché mi fate pena davvero. Magnatevelo, che vi fa meglio di tutte le medicine dei dottori.»
Mangiai questo dolce di montagna tosto e duro, buono anche se con un aroma strano, e poi forse mi addormentai.
Forse, sì e forse no, perché a un certo punto ero sveglia e c’era un giovane chino sul mio letto. In un primo momento mi sembrò quello che mi faceva la fisioterapia, ma era tanto più bello, tutto biondo. E mi abbracciava e mi accarezzava come mio marito quando ero sposina. E non volevo aprire le gambe perché avevo appena fatto la protesi d’anca, ma mi è venuto facile, e in mezzo ero spalmata di miele, e la sua lingua anche, il mio corpo e il suo respiro profumavano di miele…
Stamattina mi sono svegliata e ho visto che c’è il sole. Per la prima volta da tanto tempo mi va di alzarmi, lavarmi, mangiare. Soprattutto vorrei altro miele, ma non queste scatoline di plastica dell’ospedale, miele buono di montagna, è come quando ero incinta.
E a farlo apposta, proprio oggi le infermiere si preoccupano per me: dicono che sulla mia coscia sinistra ci sta una macchia bianca, dura, tonda, che prima non c’era. Hanno chiamato il dottore che adesso è qui con mio figlio e mio marito, tutti preoccupati, vogliono prenotare una visita dal dermatologo al più presto.
A me non importa, e sì che l’ipocondriaca dovrei essere io.
La signora Maria l’hanno dimessa stamattina. Mi ha lasciato il suo numero di cellulare. Prima di partire, un momento che eravamo sole nella stanza mi ha bisbigliato: «Signò, venite a trovarmi presto, che vi faccio i dolcetti e vi invito a uno di quei balli che sapete…»
Dio mi perdoni, ma sono proprio tentata di accettare. Qualcosa mi dice che se vado sul monte con le amiche della Maria, a ballare intorno al fuoco, ho speranza di rivedere quel bel giovanotto.